notte e nebbia

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Per sapere occorre immaginare. Dobbiamo provare a immaginare l’inferno di Auschwitz nell’estate del 1944. Non parliamo di inimmaginabile. Non difendiamoci dicendo che immaginare una cosa del genere, in qualsiasi modo ci proviamo, è un compito che non possiamo assumerci, che non potremo mai assumerci – anche se in fondo è vero. Poiché comunque dobbiamo provarci, dobbiamo confrontarci con questa cosa difficile da immaginare.

 

Georges Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, Raffaello Cortina, Milano 2005

A volte dovremmo avere il coraggio di guardare le immagini scomode. Non quelle dei film che ci commuovono, ma quelle reali, clandestine, rovinate, dimenticate che ci provocano.
Considerate che questo è stato.

perfettisconosciuti

 

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Basta poco per chiedersi quale sia il bene dell’altro e di sé stessi… la totale sincerità? o l’accettazione della propria e altrui fragilità, il prendersi cura amorevolmente, farsi carico delle debolezze fino a quando queste proromperanno da sé?

In fondo, qui l’unico che trova salvezza è l’unico che si nasconde e che trova alla fine la forza di svelarsi.

La realtà non smetterà certo di interrogare gli altri personaggi. Come affrontarla?

 

Mi piace questo film. Mi piace perché provoca: fa domande, suscita risposte, insinua dubbi. E lo fa con apparente leggerezza.

 

“tutto ridiventa nuovo”

Entrare dove il tempo si è fermato. La polvere ricopre le cose, il buio invade lo spazio. Oggetti ammucchiati, tempi diversi che vivono insieme, nello stesso luogo.
Rivivo giovinezza che non mi appartiene, vestiti floreali con gonne leggere, tailleur grigi, capelli ricci e pieni di lacca. Calzoncini corti e mocassini.
Pellicole di celluloide in bianco e nero, l’aspettativa di un pomeriggio diverso, manifesti nascosti chissà dove.
Sedie in legno, muri scrostati, da cui si intravede ancora il colore vivace. Un palco con il sipario aperto. Sulla scena polvere. Platea invasa di oggetti ammucchiati. Un lavandino, una vetrinetta. Resti di un gatto mummificato, intrappolato in un luogo antico e ormai scomparso.
Oggi una scena tutta nuova. Questa sera si recita ancora, osserviamo con gioia: ferma immobile, torna in vita la vita stessa.

“Ogni culto antico tramonta, tutto per noi ridiventa nuovo”

riguardo la faccenda del genocidio armeno…

La Turchia lo nega. Da sempre, non è una grossa novità. Stavolta ha quasi minacciato il papa di farsi i fatti suoi.
Credo che non sia così conosciuta la storia del popolo armeno, in ogni caso. Io mi ci sono imbattuta scrivendo la tesi, leggendo e osservando la testimonianza di un cineasta italiano, ma di origini armene.

 

 

Uomini anni vita (1990).

Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, artisti e cineasti, nel 1987 avviano un nuovo progetto: cercare negli archivi dell’Europa dell’est tracce e immagini che forniscano prove visive del genocidio armeno.

L’anno prima, in Ritorno a Khodorciur. Diario armeno, 86 minuti girati con una camera a mano, il padre di Yervant, Raphael Gianikian, racconta dei suoi ricordi di bambino in Armenia, a Kisiak, suo paese natale. Nel giugno del 1915 era giunto a Kisiak un ufficiale del governo con dei gendarmi. In pochi giorni gli abitanti del paese furono costretti a lasciare le loro case, abbandonando ciò che non potevano portare con sé. Raphael all’epoca aveva 9 anni: fu assegnato al gruppo dei bambini, delle donne incinte e dei vecchi, e partì in un secondo momento. Fu uno dei sette sopravvissuti tra i diecimila abitanti della cittadina in cui viveva.
Raphael ricorda gli invalidi e chi non poteva muoversi: bruciati vivi. Uomini impiccati davanti alla chiesa. Ricorda il divieto di seppellire i congiunti. Donne stuprate e gettate nel fiume. Ricorda il divieto di bere alle fonti, l’Eufrate invaso dai miasmi dei cadaveri che galleggiavano, i corpi di uomini decapitati.

Fare memoria è andare alle origini cercando il senso. Questo l’ha detto il papa. Non ora: l’ha detto parlando d’altro. Ma proprio questa frase è finita nella mia tesi nel capitolo in cui parlo di questi due cineasti e racconto quanto sia per loro importante il lavoro sulla memoria, negli archivi della storia. Perché non è solo una ricerca storica, in fondo. È cercare l’uomo, cercare chi è l’uomo, avendo il coraggio di guardare il male che è in grado di compiere.

Tra 1987 e 1988 Gianikian e Ricci Lucchi si recano nel Caucaso, nella repubblica armena, a Leningrado. Sono anni di crisi e sconvolgimenti nella regione caucasica: uomini e donne armeni vengono massacrati nel febbraio 1988 a Sumgait, nell’Azerbaijan sovietico. Nel dicembre dello stesso anno un terremoto miete centomila vittime. Rovine, distruzioni, ma la caduta del comunismo permette loro di entrare in archivi precedentemente stretti dalla censura e controllati dalle autorità. Nonostante le difficoltà i due cineasti sono fermamente impegnati a cercare documenti di eventi accaduti in Armenia dopo il 1915 da collegare a storie familiari e diari dell’esilio, “riunendo materiali dispersi, sparpagliati come quel popolo, in continuo movimento”.

In realtà non sono molte le tracce documentate che possano testimoniare la vicenda del popolo armeno. I pochi filmati rimasti ci mostrano l’Armenia come piccola nazione all’interno di un grande impero, prima cristiano, poi comunista: pellicole di propaganda che mostrano parate e cerimonie per l’anniversario della dinastia dei Romanov (1906), o coreografie di operai al lavoro, caratteristiche del realismo socialista.

Spuntano alcune immagini successive al 1915, dopo il massacro: una donna piange, accasciata su un cumulo di pietre che era stata la sua casa. Villaggi e città deserte. Eppure erano immagini che appartenevano a un film che doveva mostrare allo zar i successi delle armate russe contro gli ottomani. Nicola II, in una lettera alla moglie, si dice incantato dall’”incomparabile bellezza delle vette e dallo scintillio della neve sotto il sole”.

Altre immagini, 1918. Spedizione britannica, inviata a presidiare alcuni pozzi petroliferi. Vengono mostrate colonne di deportati armeni che marciano lasciandosi alle spalle i luoghi del massacro di Karabach. “È un andare doloroso di donne, vecchi e bambini a dorso di asini e buoi. Attraversano strade di polvere, montagne e deserti. Un popolo senza volto va verso l’esilio, la dispersione. Immagini metaforiche di tutti gli esodi del secolo”.

Il film non ha didascalie. Non è possibile in realtà ricavare informazioni su luoghi e tempo. Del resto questa storia è un passato negato da alcuni, distante e sconosciuto per molti. Le immagini sono rallentate, reinquadrate, ricolorate, rimontate perché abbiano un nuovo ritmo. La musica che accompagna il film è lo Stabat Mater di Pergolesi. La tragicità delle immagini è legata al pianto di una donna. La donna che piange sulle rovine della sua casa; la donna, Maria, che piange sotto la croce. Il motivo è lo stesso: l’uomo uccide l’uomo.

“Fare film sulla guerra purtroppo non significa fermare la guerra. Però sappiamo che il nostro lavoro è destinato a un pubblico”. Mostrare immagini belle, ripulite non significa parlare di sé stessi, giocare con il cinema e la storia come fosse un giocattolo. Osservare, e osservare lentamente, comporta riflettere sulle responsabilità a cui le immagini stesse ci inchiodano.

Non aggiungo altro. Mi sembra sufficiente il film.

 

 

 

 

 

Le parole tra virgolette sono tratte da Yervant Gianikian, Uomini anni vita, in Sergio Toffetti (a cura di), Yervant Gianikian. Angela Ricci Lucchi, Hopefulmonster, Firenze 1992.

Cfr. anche Robert Lumley, Dentro al fotogramma. Il cinema di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Feltrinelli, Milano 2012.

L’uomo diventerà nuovamente visibile

Dopo l’invenzione della stampa la parola è diventata il principale ponte di collegamento tra uomo e uomo. L’anima si è raccolta e cristallizzata nella parola. Il corpo invece ne è rimasto privo: senza anima e vuoto.
[…] Ora il cinema sta per imprimere nuovamente alla cultura una svolta radicale. Milioni di uomini siedono ogni sera nei cinema e attraverso i loro occhi vivono l’esperienza di vicende, caratteri, sentimenti e stati d’animo di ogni genere, senza aver bisogno di parole.
[…] Oggi l’umanità intera si sta già apprestando a reimparare il disimparato linguaggio della mimica e dei gesti: non la surrogazione delle parole come nel linguaggio dei sordomuti, bensì la corrispondenza visiva dell’anima immediatamente incarnata.
L’uomo diventerà nuovamente visibile.

 

(B. Balàzs, 1924)

 

Béla Balàzs, L’uomo visibile, a cura di L. Quaresma, Torino, Lindau 2008, pp. 124-125.

…. esse est percepi ….

Oggi è un leitmotiv diffuso che basti un po’ di materia scioccante per fare un’opera d’arte contemporanea. Ma il vero Reale del dispositivo video (…), il vero trauma è il fatto che al di là dello schermo non c’è nulla, il fatto che l’Altro non ci vede, che il trauma è lo schermo stesso, o meglio la sua natura di “mediatore” (come dice Lacan).
(…)
La centralità del modello panottico deve la sua forza simbolica all’idea di uno “sguardo che tutto vede senza essere visto”. Ma un simile sguardo non sarebbe esattamente lo sguardo dell’Altro?

Giustamente, Žižek nota come oggi forse è più valido il tragicomico rovesciamento della situazione benthamiana, per cui la paranoia viene determinata non dalla sensazione di essere sempre controllati, ma inversamente dalla paura di non essere visti, di non essere “sullo schermo”…”Il soggetto ha infatti bisogno dello sguardo della telecamera che funge da garante ontologico del suo essere”.

 

Marco Senaldi, Doppio sguardo: cinema e arte contemporanea, Bompiani 2008.

Per me la Storia è l’opera delle opere, se vuoi, ingloba tutto, la Storia è il nome della famiglia, ci sono i genitori e i figli, c’è la letteratura, la pittura, la filosofia […] La Storia, diciamo, è tutto insieme. Allora l’opera d’arte, se è fatta bene, se si vuole come tale, ne è l’immagine artistica. Si può avere un sentimento tramite essa, dato che è lavorata artisticamente. Non è affare della scienza, né di altri. Mi pareva che la storia potesse essere un’opera d’arte, cosa che generalmente non è ammessa, salvo che da Michelet.

J.-L. Godard, Y. Ishaghpour, Archéologie du cinema et mémoire du siècle. Dialogue, Tours 2000, p.25.

Les choristes

Stasera ho visto proprio un bel film. Di quelli semplici, di quelli dove il cattivo è sempre brutto e con una faccia tale da farti pensare che poteva interpretare solo quella parte, di quelli dove il buono è sempre buono, e senza una ragione precisa, di quelli dove ci sono i bambini con un viso tanto innocente che ti commuoveresti anche se il film fosse muto, di quelli dove la mamma di turno ha proprio le caratteristiche che una mamma dovrebbe avere… di quelli dove alla fine è impossibile trattenere una lacrimuccia!
Sembra la fiera della banalità… invece sono semplicemente le caratteristiche di Les Choristes (I ragazzi del coro), film di Christophe Barratier, del 2004. Un film tanto semplice quanto bello, con dei bellissimi spunti di riflessione… quello che ora come ora più mi colpisce è il non arrendersi davanti alla realtà, spesso brutta, o che sembra non dare vie d’uscita. In questi casi condurre la propria vita semplicemente, senza scoraggiarsi o adattarsi alle convenienze può essere la salvezza di molti…
E come dice la Francesca, è così che i film dovrebbero essere: non angosciosi, ma tranquilli e felici!
Perché in fondo la vita non è così brutta… Basta saperla guardare con occhi attenti e gioiosi!