Mi sembra quasi strano essere diventata grande senza aver mai provato a fumare una sigaretta. Quasi me ne vergogno, come se fossi una puritana che ha paura di chissà cosa.
Di fatto la curiosità di provare c’è stata, appena dopo l’adolescenza, quando finalmente imparavo a stare un po’ al mondo da sola. Prima non ne avevo mai né sentito il bisogno, né ero stata in compagnia con qualcuno che fumasse, quindi in realtà semplicemente non ce ne era mai stata occasione.
Poi la curiosità arrivò. E la nostra coinquilina, che invece aveva tranquillamente provato, promise di portare le sigarette di sua madre, che ormai non fumava più, perché molto malata.
Non fece in tempo, semplicemente.
Una mattina squillò il nostro telefono – il mio, per l’esattezza, perché il suo era spento – e ci avvisarono che sua mamma non c’era più.
Cambiò tutto, e non cambiò nulla. La sua vita si rivoluzionò, la nostra ebbe uno scossone, poi tornò alla normalità.
L’unica cosa che è rimasta è il sapore mai conosciuto di quelle sigarette. Svanite, sconfitte da una realtà più dura, più importante. Ogni volta che mi è stata offerta, o mi è stato chiesto se fumassi, ogni singola volta, mi è tornata in mente la telefonata di quella mattina, in un insieme di ricordi che la mia testa ha cucito insieme in modo arbitrario.
Non è un giudizio, non è la paura che il fumare porti alla stessa fine di quella donna, è semplicemente un ricordo, una malinconia, un’emozione. La morte che serve a rimettere a posto le cose importanti della vita, che sconfigge la superficialità. Si riprende il proprio spazio e mi impone una pausa, un momento di respiro, per ricominciare a vivere con maggiore consapevolezza. E questa consapevolezza di pienezza di vita vince ogni volta su qualsiasi desiderio, su ogni offerta. Ogni volta mi fermo. E ricordo.