Vite a scadenza

 

Cinquanta: Non voglio saperne di voi! Mi siete tutti indifferenti. Mi siete indifferenti perché non esistete. Voi non siete vivi. Voi siete tutti morti. Io sono l’unico. Io sono vivo.
Io non so quando morirò, per questo sono l’unico. Voi andate strisciando con quel
prezioso, piccolo fardello appeso al collo. I vostri anni ve li portate appesi al collo.
Sono pesanti da portare? No! Non sono pesanti. Non sono molti! Ma a voi questo
non importa. Perché siete già morti! Io non vi vedo affatto. Non siete nemmeno
ombre. Non siete niente. Io cammino in mezzo a voi solo perché sentiate quanto
vi disprezzo. Uditemi, voi gente, voi bravi morti, anche gli anni che portate appesi
al collo sono falsi. Credete che siano vostri. Ne siete così sicuri. Ma non c’è niente
di sicuro. E’ tutto falso. Voi portate appese al collo delle capsule vuote. Le capsule
sono vuote. Non sono vostri nemmeno gli anni che credete vi appartengano! Non
avete niente! Non c’è niente di sicuro! Le capsule sono vuote! Tutto è incerto
come lo è sempre stato. Chi ha voglia di morire, può farlo già oggi stesso. Chi non
ne ha nessuna voglia, beh, morirà lo stesso. Le capsule sono vuote! Le capsule
sono vuote!

[…]

Elias Canetti, Vite a scadenza.

“tutto ridiventa nuovo”

Entrare dove il tempo si è fermato. La polvere ricopre le cose, il buio invade lo spazio. Oggetti ammucchiati, tempi diversi che vivono insieme, nello stesso luogo.
Rivivo giovinezza che non mi appartiene, vestiti floreali con gonne leggere, tailleur grigi, capelli ricci e pieni di lacca. Calzoncini corti e mocassini.
Pellicole di celluloide in bianco e nero, l’aspettativa di un pomeriggio diverso, manifesti nascosti chissà dove.
Sedie in legno, muri scrostati, da cui si intravede ancora il colore vivace. Un palco con il sipario aperto. Sulla scena polvere. Platea invasa di oggetti ammucchiati. Un lavandino, una vetrinetta. Resti di un gatto mummificato, intrappolato in un luogo antico e ormai scomparso.
Oggi una scena tutta nuova. Questa sera si recita ancora, osserviamo con gioia: ferma immobile, torna in vita la vita stessa.

“Ogni culto antico tramonta, tutto per noi ridiventa nuovo”

teatro

Nel piccolo salone della mia minuscola scuola venerdì abbiamo assistito a uno spettacolo teatrale. Uno spettacolo “vero”, non le minestrine scaldate per i ragazzi nei teatrini di provincia.

Per un’oretta circa mi sono sentita di nuovo in un mondo incantato, catapultata in una realtà che non è la mia, in una finzione vera sulla scena.

Nel salone-scantinato. Con i palloncini ancorati al soffitto in ricordo della festa del 30 gennaio.
Ho rivissuto le corse in macchina per raggiungere teatri milanesi, ho rivisto i luoghi deputati agli spettacoli a Lucca, al festival dei teatri del sacro. Dove gli spazi li curavamo noi, e li osservavamo mentre si trasformavano in scene immaginarie.
Anche venerdì è accaduto. Nel nostro salone-scantinato, che da luogo di gioco e di raduno prima che inizino le lezioni, per un’ora è stato teatro, sala, chiesa, strada, cortile, palco.

Ho ricordato che teatro è ovunque. E la cosa più bella, forse, è stato poterlo condividere con i miei alunni.

dila ben!

Un giorno ho iniziato a credere ai riti.

Era una cosa un po’ magica, un po’ superstiziosa, un po’ stantia, che sa di vecchia credenza nella casa della nonna. Quel mobile che conosci da sempre, ti affascina, non sai bene cosa ci sia contenuto, anche se verosimilmente ci sono solo cianfrusaglie raccolte nel tempo.

Il rito, dicevo. Non era roba per me. Così riservata, così razionale.

Ho sempre odiato feste e processioni, santi di paese raffigurati in statue di dubbio gusto riccamente ornate, portate sulle spalle, uno due tre, cambio! Bum bum bum! La grancassa intanto suona e la banda marcia sicura.

Un giorno sono andata a teatro.

Cosa c’ è di più rituale di uno spettacolo, tra l’altro? Quell’uscire da sé dell’attore, per entrare nel personaggio, e quell’uscire da sé del pubblico, per lasciarsi portare come in un’iniziazione misterica…

Beh, quella sera lo spettacolo era “Per quell’acerbo dolore”, e raccontava una processione a un santuario di montagna. Uno come tanti, dove un’immagine miracolosa è conservata.

Raccontava, ho detto? Ho sbagliato. Lo spettacolo viveva quella processione. Scandito in momenti, rituali, come una decina del rosario. Nervoso, triste, gioioso, come la vita, e come i mille pensieri che ti attraversano la testa durante un rosario. Faticoso, come la salita. Di dolore, come quello ai piedi, quando ai piedi hai solo scarpe rotte. Pieno di speranza, come una guarigione.
Insomma, la mia fede fatta di filosofia e storia si è sciolta, in quelle avemarie (“dila ben!”) importanti perché dette col cuore, senza fronzoli, con la semplicità e l’umiltà di secoli di tradizione. La salita di fatica e di speranza, dove ciascuno si porta sulle spalle problemi e affanni. Però li si porta a qualcuno. Li si porta insieme.
Li si porta nel tempo.

Uomini e donne che nel tempo ripetono gesti. Gesti che sono vivi, perché memoria di uomini e donne.

Insomma alla fine piangevo.
Ora sorrido. A ogni salita in montagna, davanti agli ex-voto più pacchiani, alle chiacchiere delle vecchiette in processione.
Ora sorrido della storia, sorrido della vita.

La Divina Commedia, l’Opera

  Che dal capolavoro di Dante potesse uscire solo qualcosa di bello, lo davo quasi per scontato…
Ma che potesse essere anche ben fatto, non era poi così certo!
Invece questo musical è veramente molto bello.
Dalla nascita dell’inferno con la cacciata di Lucifero, alla visione di Dante, tutto in circa tre ore… Certo, i tagli sono stati enormi, ma l’opera che ne è nata vive benissimo da sola, respira e si fa ammirare.
L’inferno ha un’importanza particolare, forse per il suo carattere più narrativo, per gli episodi famosi, o per la possibilità di spaziare dalla deformità di Caronte alla bellezza di Francesca, dalle musiche forti e dure a quelle dolci e soavi…
Così come Dante ha giocato con le parole, Frisina ha giocato con la musica, gli scenografi con i colori e le immagini.
Le rime aspre risuonano nell’episodio di Caronte, la concretezza in Ugoliono, la compassione in Paolo e Francesca, la paura nella selva… C’è tutto!
Purgatorio e Paradiso sono quasi uniti in un unico grande quadro, musiche maestose e grandi descrizioni. C’è un abisso tra il Paradiso e l’Inferno, ma il passaggio è graduale e piacevole.
E il musical non è un riassunto della Commedia, ma un viaggio con un tema portante: la ricerca dell’Amore. Amore rappresentato dalla presenza di Beatrice sin dall’inizio. Anche gli episodi infernali sono tutti legati da questo filo: ogni personaggio è stato dannato perché ha raggiunto un amore sbagliato…
L’amore finale è per Dante Beatrice, ma non una Beatrice sensuale e terrestre: è la Beatrice attraverso cui si può contemplare il Paradiso.

Ero inizialmente perplessa per la scenografia, ma mi sono dovuta ricredere. La scena era occupata da un enome piattaforma circolare, ruotante, e da due file di tendaggi su cui sono state proiettate tutte le scenografie: dalle illustrazioni più famose all’icona finale della Madonna, quella che guardacaso è l’icona a cui sono più affezionata.
I costumi erano stupendi, così come il trucco! Da soli bastavano a creare l’atmosfera… Anche senza musiche e danze. Che peraltro sono state all’altezza dell’opera. Coreografie diverse ed emozionanti ( …….. si potrebbero sprecare anche delle parole sul primo ballerino…. che ha interpretato il passo a due di Paolo e Francesca……………. si potrebbe, ma non vedo perché far godere anche altri di tale scena! :p), canzoni bellissime ( Cercoooooooooooooooooo), come l’Inno alla Vergine…
Grazie a Frisina, ma soprattutto grazie a Dante!

La Divina Commedia. L’Opera.

Che altro dire… Spettacolo bellissimo, ne valeva assolutamente la pena!
Peccato che uscite di lì diluviasse… e ci siamo bagnate come pulcini!!
🙂

Siate realisti: chiedete l’impossibile


Personaggi: Caligola, imperatore romano, ed Elicone, servo e confidente dell’imperatore.


Elicone
: Buon giorno Caligola.

Caligola: Buon giorno Elicone.

Elicone: Sembri affaticato.

Caligola: Ho camminato molto.

Elicone: Sì, la tua assenza è durata a lungo.

Caligola: Era difficile da trovare.

Elicone: Che cosa?

Caligola: Ciò che volevo.

Elicone: E che volevi?

Caligola: La luna.

Elicone: Che?

Caligola: La luna. Sì, volevo la luna.

Elicone: Ah, e per fare cosa?

Caligola
: È una delle cose che non ho.

Elicone: Sicuramente. E adesso è tutto a posto?

Caligola: No, non ho potuto averla. Sì, ed è per questo che sono stanco. Tu pensi che io sia pazzo.

Elicone: Sai bene che io non penso mai. Sono troppo intelligente per pensare.

Caligola:
Sì, d’accordo. Ma non sono pazzo e posso dire perfino di non essere mai
stato così ragionevole come ora. Semplicemente mi sono sentito
all’improvviso un bisogno di impossibile. Le cose così come sono non mi
sembrano soddisfacenti.

Elicone: È un’opinione abbastanza diffusa.

Caligola:
È vero, ma non lo sapevo prima. Adesso lo so. Questo mondo così com’è
fatto non è sopportabile. Ho bisogno della luna, o della felicità o
dell’immortalità, di qualcosa che sia demente forse, ma che non sia di
questo mondo.

Elicone: È un ragionamento che sta in piedi. Ma, in generale, non lo si può sostenere fino in fondo, non lo sai?

Caligola:
È perché non lo si sostiene mai fino in fondo che non lo si sostiene
fino in fondo. E non si ottiene nulla. Ma basta forse restare logici
fino alla fine.

Elicone: Io so ciò che pensi. Quante storie, per esempio per la morte di una donna.

Caligola:
No, Elicone, non è questo. Mi sembra di ricordare, è vero, che alcuni
giorni fa è morta una donna che io amavo. Ma cos’è l’amore? Poca cosa.
Questa morte non è niente, te lo giuro. Essa è solo il segno di una
verità che mi rende la luna necessaria. È una verità molto semplice e
perfettamente chiara, un po’ stupida forse, ma difficile da scoprire e
pesante da portare.

Elicone: Ma, in fin dei conti, qual è la verità, Gaio?

Caligola: Gli uomini muoiono e non sono felici.

Camus, Caligola : I atto, IV scena.