Chi sono io?

Chi sono io?

Chi sono io? Spesso mi dicono
che esco dalla mia cella
disteso, lieto e risoluto
come un signore dal suo castello.

Chi sono io? Spesso mi dicono
che parlo alle guardie
con libertà, affabilità e chiarezza
come spettasse a me di comandare.

Chi sono io? Anche mi dicono
che sopporto i giorni del dolore
imperturbabile, sorridente e fiero
come chi è avvezzo alla vittoria.

Sono io veramente ciò che gli altri dicono di me?
O sono soltanto quale io mi conosco?
Inquieto, pieno di nostalgia, malato come uccello in gabbia,
bramoso di aria come mi strangolassero alla gola,
affamato di colori, di fiori, di voci d’uccelli,
assetato di parole buone, di presenza umana,
tremante di collera davanti all’arbitrio e all’offesa più meschina,
agitato per l’attesa di grandi cose,
preoccupato e impotente per l’amico infinitamente lontano,
stanco e vuoto nel pregare, nel pensare, nel creare,
spossato e pronto a prendere congedo da ogni cosa?

Chi sono io?
Oggi sono uno, domani un altro?
Sono tutt’e due insieme? Davanti agli uomini un simulatore
e davanti a me uno spregevole vigliacco?
Chi sono io? Questo porre domande da soli è derisione.
Chiunque io sia, tu mi conosci, o Dio, io sono tuo!

 

Dietrich Bonhoeffer, RESISTENZA E RESA, Lettere e scritti dal carcere

Bonhoeffer scrisse questi versi nel carcere di Tegel, a Berlino, dove fu rinchiuso per motivi politici. Morì impiccato nel campo di concentramento di Flossenbürg nel 1945.

nausea

Stavo cercando parole e metafore per descrivere quanto ho provato oggi.
Ho cancellato tutto. Mi resta solo una terribile parola: nausea. Una nausea vorticosa, senza dolore fisico.
La voglia di dire alle persone quanto male stanno compiendo, quanto schifo, quanta bruttura c’è nei loro gesti.
Quanto spreco di tutto quel bene che invece molti altri si impegnano a fare, soffrendo, perché non è mai abbastanza.
E invece basta poco per cadere nel baratro di questa infinita piccolezza.
Io. Paura. Prepotenza. Parole.
Parole vuote, parole che non sanno di bene. Parole di chi parla solo di sé stesso, di quanto sia migliore.
Sono terribili le parole. Ci innalzano nell’espressione più alta del nostro intimo, e ci precipitano nella bruttezza delle peggiori accuse.
Ho bisogno di fare pulizia, di dare pace alle mie orecchie, ai miei occhi, al mio cuore.
Ho ritrovato un’immagine meravigliosa di un’amica, proprio stamattina, prima che tutto scoppiasse.
Aiuti che arrivano inaspettati, parole sempre belle da vivere…

germ

Capirsi

Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale

Noi chiamiamo segno la combinazione del concetto e dell’immagine acustica: ma nell’uso corrente questo termine designa generalmente soltanto l’immagine acustica, per esempio una parola (arbor ecc.). Si dimentica che se arbor è chiamato segno, ciò è solo in quanto esso porta il concetto “albero”, in modo che l’idea della parte sensoriale implica quella del totale.

[…]

Noi proponiamo di conservare la parola segno per designare il totale, e di rimpiazzare concetto e immagine acustica rispettivamente con significato e significante: questi due ultimi termini hanno il vantaggio di rendere evidente l’opposizione che li separa sia tra di loro sia dal totale di cui fanno parte.

[…]

 Il significante linguistico è, nella sua essenza, incorporeo, costituito non dalla sua sostanza materiale ma unicamente dalle differenze che separano la sua immagine acustica da tutte le altre.

I segni della scrittura sono arbitrari: nessun rapporto, per esempio, tra la lettera t ed il suono che essa designa; il valore delle lettere è puramente negativo e differenziale; così una stessa persona può scrivere t con varianti…

[…]

[l’arbitrarietà del segno] non deve dare l’idea che il significante dipenda dalla libera scelta del soggetto parlante (si vedrà più in basso che non è in potere dell’individuo cambiare in qualcosa un segno una volta stabilito in un gruppo linguistico); noi vogliamo dire che è immotivato, vale a dire arbitrario in rapporto al significato, col quale non ha nella realtà alcun aggancio naturale.

 

E nonostante tutto questo, capirsi a volte sembra impossibile.

Lettura

Quando leggo un libro entro in una specie di universo parallelo, soltanto mio, a cui nessuno è permesso avvicinarsi. Non è il mondo del libro, è una sorta di limbo che sta tra il mondo reale e il mondo fantastico, per cui percepisco pienamente sia ciò che succede nella realtà, sia nella finzione. Non solo, è possibile anche bearsi delle parole, della forma scritta, della bellezza dei suoni e dei giochi linguistici.
E’ un paradiso momentaneo dove mi immergo, e da cui non vorrei essere svegliata per nessun motivo.
Non ci sono invitati in questo mondo, tanto che mi dà quasi fastidio se contemporaneamente a me qualcun altro sta leggendo il mio stesso libro.
Immaginate l’imbarazzo quando capita di essere interrotti da un perfetto sconosciuto, che nel bel mezzo della lettura chiede: “Scusi, come mai sta leggendo proprio quel libro? E’ la prima persona a cui vedo un libro di quell’autore.”
Involontariamente arrossisco, timida timida, come spogliata in pubblico, come nuda davanti a un mondo esterno che non può capire. Ma no, può capire eccome! Altrimenti non ci sarebbe una domanda così precisa!
Ma questo mondo  era mio fino a qualche istante fa, fino a quando un perfetto estraneo non ha forzato la serratura per entrare. E’ come se avesse provato a forzare i miei pensieri e i miei sentimenti, come se potesse leggere anche lui lo stesso libro soffermandosi sulle parole con l’intonazione che do io alla lettura, con lo sguardo attento su alcune parole e più fuggevole su altre. E’ un piccolo furto d’identità che non riesco a tollerare. Lo nascondo con un profondo desiderio di sparire alla vista, di immergermi di nuovo nel mio mondo e nascondermi meglio possibile.
E’ per quello che di solito tengo nascosta la costa del libro: ciò che leggo mi appartiene tanto quanto i miei più profondi pensieri.

Parole-parole

 

Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento

S. Quasimodo

 

C’è un gran cicaleccio in giro su quella che è la situazione politica in Italia. Situazione politica o quel che ne rimane, insomma.

Eppure mi sento completamente svuotata, come se le parole stesse, che tanta importanza hanno avuto nella democrazia da due millenni e mezzo a questa parte, si sentissero stanche di essere proclamate. Potrei essere anche io, più semplicemente, quella stanca di ascoltarle.

E’ che ci sono parole e Parole.

Le “parole” con la p minuscola servono a riempire i discorsi da salotto, volteggiano con una rapidità tale da non farsi acchiappare, lasciando dietro di sé vuoto e – di conseguenza –  assoluto bisogno di ubriacarsi ancora, e poi ancora, e poi ancora una volta di vani discorsi.

Non esiste il silenzio tra queste, perché sarebbe carico di attese, di aspettative, di imbarazzo. Se non stiamo dicendo nulla, come potremmo sopportare il peso del silenzio?

Le “Parole” con la p maiuscola, invece, sono come delle piccole api: svolazzano sopra la testa e ronzano, minacciano addirittura. Sono insistenti, sanno dirti cose davvero scomode, ma possono affascinarti con il loro lavoro e con il loro colore. Sono quelle parole che non vorresti sentire, quei fulmini a ciel sereno che toccano per davvero la tua vita, che miracolosamente agiscono, prima ancora che parlare.

Queste parole, poi, sanno stare zitte. Stanno in silenzio e aspettano. Aspettano che tu sia pronto a riceverle, che il messaggio che veicolano penetri profondamente, perché sanno (certo, le parole “sanno”. Come potrebbe essere altrimenti? E’ tramite le parole che comunichiamo i significati) quanto è importante accogliere una parola alla volta, così come si accolgono le persone, così come si accettano i doni.

E il silenzio tra una parola e l’altra non è imbarazzato. E’ carico di una musica dolce che risuona, di un’eco che trascina con sé parole e ricordo.

Sono queste le parole che voglio ascoltare, sono queste le parole che voglio pronunciare. Parole che parlano alla vita, non della vita.

Perciò, per un po’… buon silenzio.

Parole preferite

Una delle mie parole preferite è “Concretezza”. Potrei dilungarmi su quanto -foneticamente- dia l’mpressione di un qualcosa che si crea e si fa, ma è tardi: questo lo lascio alla fantasia dei miei lettori. Anche perché ormai saranno ridotte a due, una letterata e una logopedista che sono ben in grado da sole di fare questo tipo di analisi.
Mi vorrei soffermare su quanto sia bella l’idea di una parola che non si ferma solo al livello di idea e di discorso, ma possa essere utile per creare qualcosa. E qualcosa di bello, ovviamente. Perché in fondo è per quello che le parole esistono: questa esigenza comunicativa tra gli uomini da qualche parte sarà inizata, e credo sia iniziata dall’urgenza di fare, e di fare insieme, qualcosa. Bello.
Per questo mi piace la “concretezza”. E per questo odio le riunioni in cui si parla e basta…

Pirandello


Ma se è tutto qui il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo d’intenderci; non c’intendiamo mai!

Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore