notte e nebbia

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Per sapere occorre immaginare. Dobbiamo provare a immaginare l’inferno di Auschwitz nell’estate del 1944. Non parliamo di inimmaginabile. Non difendiamoci dicendo che immaginare una cosa del genere, in qualsiasi modo ci proviamo, è un compito che non possiamo assumerci, che non potremo mai assumerci – anche se in fondo è vero. Poiché comunque dobbiamo provarci, dobbiamo confrontarci con questa cosa difficile da immaginare.

 

Georges Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, Raffaello Cortina, Milano 2005

A volte dovremmo avere il coraggio di guardare le immagini scomode. Non quelle dei film che ci commuovono, ma quelle reali, clandestine, rovinate, dimenticate che ci provocano.
Considerate che questo è stato.

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Basta poco per chiedersi quale sia il bene dell’altro e di sé stessi… la totale sincerità? o l’accettazione della propria e altrui fragilità, il prendersi cura amorevolmente, farsi carico delle debolezze fino a quando queste proromperanno da sé?

In fondo, qui l’unico che trova salvezza è l’unico che si nasconde e che trova alla fine la forza di svelarsi.

La realtà non smetterà certo di interrogare gli altri personaggi. Come affrontarla?

 

Mi piace questo film. Mi piace perché provoca: fa domande, suscita risposte, insinua dubbi. E lo fa con apparente leggerezza.

 

riguardo la faccenda del genocidio armeno…

La Turchia lo nega. Da sempre, non è una grossa novità. Stavolta ha quasi minacciato il papa di farsi i fatti suoi.
Credo che non sia così conosciuta la storia del popolo armeno, in ogni caso. Io mi ci sono imbattuta scrivendo la tesi, leggendo e osservando la testimonianza di un cineasta italiano, ma di origini armene.

 

 

Uomini anni vita (1990).

Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, artisti e cineasti, nel 1987 avviano un nuovo progetto: cercare negli archivi dell’Europa dell’est tracce e immagini che forniscano prove visive del genocidio armeno.

L’anno prima, in Ritorno a Khodorciur. Diario armeno, 86 minuti girati con una camera a mano, il padre di Yervant, Raphael Gianikian, racconta dei suoi ricordi di bambino in Armenia, a Kisiak, suo paese natale. Nel giugno del 1915 era giunto a Kisiak un ufficiale del governo con dei gendarmi. In pochi giorni gli abitanti del paese furono costretti a lasciare le loro case, abbandonando ciò che non potevano portare con sé. Raphael all’epoca aveva 9 anni: fu assegnato al gruppo dei bambini, delle donne incinte e dei vecchi, e partì in un secondo momento. Fu uno dei sette sopravvissuti tra i diecimila abitanti della cittadina in cui viveva.
Raphael ricorda gli invalidi e chi non poteva muoversi: bruciati vivi. Uomini impiccati davanti alla chiesa. Ricorda il divieto di seppellire i congiunti. Donne stuprate e gettate nel fiume. Ricorda il divieto di bere alle fonti, l’Eufrate invaso dai miasmi dei cadaveri che galleggiavano, i corpi di uomini decapitati.

Fare memoria è andare alle origini cercando il senso. Questo l’ha detto il papa. Non ora: l’ha detto parlando d’altro. Ma proprio questa frase è finita nella mia tesi nel capitolo in cui parlo di questi due cineasti e racconto quanto sia per loro importante il lavoro sulla memoria, negli archivi della storia. Perché non è solo una ricerca storica, in fondo. È cercare l’uomo, cercare chi è l’uomo, avendo il coraggio di guardare il male che è in grado di compiere.

Tra 1987 e 1988 Gianikian e Ricci Lucchi si recano nel Caucaso, nella repubblica armena, a Leningrado. Sono anni di crisi e sconvolgimenti nella regione caucasica: uomini e donne armeni vengono massacrati nel febbraio 1988 a Sumgait, nell’Azerbaijan sovietico. Nel dicembre dello stesso anno un terremoto miete centomila vittime. Rovine, distruzioni, ma la caduta del comunismo permette loro di entrare in archivi precedentemente stretti dalla censura e controllati dalle autorità. Nonostante le difficoltà i due cineasti sono fermamente impegnati a cercare documenti di eventi accaduti in Armenia dopo il 1915 da collegare a storie familiari e diari dell’esilio, “riunendo materiali dispersi, sparpagliati come quel popolo, in continuo movimento”.

In realtà non sono molte le tracce documentate che possano testimoniare la vicenda del popolo armeno. I pochi filmati rimasti ci mostrano l’Armenia come piccola nazione all’interno di un grande impero, prima cristiano, poi comunista: pellicole di propaganda che mostrano parate e cerimonie per l’anniversario della dinastia dei Romanov (1906), o coreografie di operai al lavoro, caratteristiche del realismo socialista.

Spuntano alcune immagini successive al 1915, dopo il massacro: una donna piange, accasciata su un cumulo di pietre che era stata la sua casa. Villaggi e città deserte. Eppure erano immagini che appartenevano a un film che doveva mostrare allo zar i successi delle armate russe contro gli ottomani. Nicola II, in una lettera alla moglie, si dice incantato dall’”incomparabile bellezza delle vette e dallo scintillio della neve sotto il sole”.

Altre immagini, 1918. Spedizione britannica, inviata a presidiare alcuni pozzi petroliferi. Vengono mostrate colonne di deportati armeni che marciano lasciandosi alle spalle i luoghi del massacro di Karabach. “È un andare doloroso di donne, vecchi e bambini a dorso di asini e buoi. Attraversano strade di polvere, montagne e deserti. Un popolo senza volto va verso l’esilio, la dispersione. Immagini metaforiche di tutti gli esodi del secolo”.

Il film non ha didascalie. Non è possibile in realtà ricavare informazioni su luoghi e tempo. Del resto questa storia è un passato negato da alcuni, distante e sconosciuto per molti. Le immagini sono rallentate, reinquadrate, ricolorate, rimontate perché abbiano un nuovo ritmo. La musica che accompagna il film è lo Stabat Mater di Pergolesi. La tragicità delle immagini è legata al pianto di una donna. La donna che piange sulle rovine della sua casa; la donna, Maria, che piange sotto la croce. Il motivo è lo stesso: l’uomo uccide l’uomo.

“Fare film sulla guerra purtroppo non significa fermare la guerra. Però sappiamo che il nostro lavoro è destinato a un pubblico”. Mostrare immagini belle, ripulite non significa parlare di sé stessi, giocare con il cinema e la storia come fosse un giocattolo. Osservare, e osservare lentamente, comporta riflettere sulle responsabilità a cui le immagini stesse ci inchiodano.

Non aggiungo altro. Mi sembra sufficiente il film.

 

 

 

 

 

Le parole tra virgolette sono tratte da Yervant Gianikian, Uomini anni vita, in Sergio Toffetti (a cura di), Yervant Gianikian. Angela Ricci Lucchi, Hopefulmonster, Firenze 1992.

Cfr. anche Robert Lumley, Dentro al fotogramma. Il cinema di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Feltrinelli, Milano 2012.

è questo il tuo scopo?

“Ogni cosa ha uno scopo, perfino le macchine: gli orologi ti dicono l’ora, e i treni ti portano nei posti, fanno quello che devono fare…
forse per questo che i meccanismi rotti mi rendono triste, non possono più fare quello che dovrebbero.
Forse è lo stesso con le persone: se perdi il tuo scopo è come se fossi rotto”.
(possiamo aggiustarlo?)

“Mi chiedo quale sia il mio scopo…”

Qualche volta la notte questa oscurità, questo silenzio, mi pesa.
E’ la pace che mi fa paura. Temo la pace più di ogni altra cosa
Mi sembra che sia soltanto un’apparenza e che nasconda l’inferno.
Pensa cosa vedranno i miei figli domani… Il mondo sarà meraviglioso, dicono. Ma da che punto di vista, se basta uno squillo di telefono ad annunciare la fine di tutto?
Bisognerebbe vivere fuori dalle passioni, oltre i sentimenti, nell’armonia che c’è nell’opera d’arte riuscita. In quell’ordine incantato. Dovremmo riuscire ad amarci tanto, a vivere fuori dal tempo, distaccati…. distaccati…

 

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-Forse aveva soltanto paura…
-Parla dello Steiner? Aveva ricevuto delle minacce?
-No, non nel senso che dice lei. Forse aveva paura di sé stesso, di noi tutti…

 

La dolce vita (Federico Fellini, 1960)

Guardando la tv…

Stasera ho visto Mamma ho perso il lavoro. Penso di poter affermare con assoluta certezza che non entrerà nella storia del cinema, e nemmeno nella mia storia personale, e credo addirittura che fra qualche mese l’avrò completamente dimenticato. Però stasera l’ho guardato sorridendo, con tutta la tranquillità di una sonnecchiosa sera d’estate.

La trama è banale: una madre sessantenne poco cresciuta affronta una crisi di matrimonio e si stabilisce a casa del figlio, che di problemi ne ha già abbastanza, visto che è stato licenziato dal lavoro e che non riesce ad accettare e condividere il desiderio di maternità di sua moglie…

Da pessima femminista quale sono, ho preso le parti del protagonista per tutto il tempo. Non era il momento di avere pargoli per casa solo perché la moglie egoisticamente aveva deciso di volere un bambino.
Ma un dialogo decisamente sui generis avvenuto in circostanze “anomale” mi ha fatto pensare un po’, e sorridere di una gioia serena.
Niente di nuovo sotto il cielo, capiamoci, ma frasi che ogni tanto è bene risentire.
La madre, verso la fine del film, confessa di aver sempre vissuto per non deludere gli altri, e in particolare per piacere alla suocera. Si rende conto che questa sua continua attenzione a fare ciò che gli altri si aspettavano da lei l’ha portata a sessant’anni a essere una persona diversa da quella che in realtà è, e peggio, a non aver concluso nulla di buono nella sua vita: senza uno scopo, senza un affetto, senza del bene. E’ stata anche una pessima madre, che ha mentito sull’età del figlio per non rivelargli due bocciature in prima elementare!
Eppure – dice- con tutti i suoi limiti e con tutte le sue imperfezioni è stata capace di crescere (e amare) un figlio, e questa è la cosa che la rende orgogliosa e fiera, e sa che suo figlio non riuscirà a capirla fino a quando lui stesso non potrà provare la gioia di essere padre.

Sì, è una banalità in fondo. Ma quante volte ci facciamo condizionare dalle aspettative? Quante volte crediamo di non essere in grado di fare nulla di buono? O peggio, quante volte guardando i nostri genitori diamo giudizi affrettati?
Eppure loro, nei loro limiti e nelle loro piccolezze sono riusciti a compiere un miracolo grandissimo, quello della vita. E credo sia vero, per ora io non lo capisco a pieno…

🙂